A seat on the throne by Tolu Coker

La designer britannica di origine nigeriana Tolu Coker presenta in anteprima esclusiva a Vogue.it il docu-movie che racconta le nuove identità culturali
A seat on the throne by Tolu Coker

L’esercizio che oggi si chiede alle neonate reclute del fashion design è praticamente un mantra: la traduzione estetica della contemporaneità. Quasi uno scioglilingua semplicistico da regalare come consiglio; criptico da assorbire e ostico da realizzare. Trasformare quello che è quasi un sillogismo filosofico in qualcosa di tangibile - ed esteticamente affascinante - è stato un obbiettivo completamente centrato da Tolu Coker. “Credo che la moda sia in costante conversazione con il concetto di identità e mi interessava investigare questo tema”, dichiara la designer che incalza: “ho ragionato sulla percezione di Blackness, un argomento ricco di stereotipi culturali e preconcetti”.

Il video che la finalista di ITS 2018 presenta in anteprima esclusiva su Vogue.it, investiga infatti le tematiche antropologiche più calde. A seat on the throne è un breve documentario che descrive la complessità culturale riversata sulla collezione. Perciò la prima questione da argomentare per la giovane fashion designer è l’abbattimento dell’immaginario di comunità; il senso di gruppo omologato,  aderente a una serie di usi e costumi specifici. “Quando si parla di black-communities oggi penso piuttosto a un grande senso di individualità. Io ad esempio sono nata a Londra e i miei genitori sono nigeriani. Questa mistura culturale ha modellato la mia identità. Non rientro in una categoria culturale precisa e sono il risultato di esperienze avute rapportandomi a diversi ecosistemi sociali”, spiega Tolu Coker.

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Così nasce la collezione di debutto “Replica”, seguendo la vita di piccoli gruppi di persone con origini black, ma dalla quotidianità profondamente radicata in Europa. La collezione perciò traduce in moda la polivalenza culturale. E l’effetto finale è immediato oltre che prorompente; subito iconico alla vista. “Ma in realtà i capi sono molto intimi. Dentro ci sono elementi decorativi estremamente privati come dei ritratti di famiglia. Il senso di intimità ho voluto perpetuarlo anche tecnicamente, con ricami delicati e svariate tecniche artigianali”. La traduzione materica poi è ricaduta specialmente sul denim; tessuto che per eccellenza rappresenta la daily-routine del medio-borghese. “È denim riciclato, così come il pizzo che è ciò che è rimasto di uno stock donatomi da Sophie Halette. Ho usato il pizzo non come emblema di lusso, ma per assemblarlo fino a diventare un’illustrazione di uno dei miei soggetti mentre era intento a fumare. Mi piaceva ricreare un’immagine così urbana in un contesto estetico molto delicato come una gonna”. Dunque la destrutturazione del capo è stata fondamentale tanto da un punto di vista figurato quanto come tecnica. Non a caso molti elementi sono reversibili e/o staccabili. Poi cromaticamente la dicotomia è tutta giocata su toni bianchi e neri. “Mi hanno affascinato le fotografie di mio padre fatte tra gli anni sessanta e ottanta. Lui era un attivista e un fotoreporter. Ecco perchè ho voluto tinte neutre e basiche, ed ecco perchè campeggiano parole sui capi come titoli sui giornali”.